La chiamano adolescenza
La chiamano adolescenza
Sono tossicodipendente da quando ho avuto l’uso della ragione: no, non fumo, non bevo, non mi inietto eroina e non sniffo cocaina, non sono ninfomane né schiava di un’ottusa scatola televisiva e nemmeno di un’intelligente Personal Cassa informatica. Non gioco d’azzardo e nemmeno mi azzardo a bestemmiare un Dio o un uomo qualunque.
Ma, se ogni giorno non ho la mia dose, muoio di desolazione, di panico, di proibizione.
Non importa se la mano che me la procura è quella di un degradato spacciatore o di un raffinato trasgressore, se a rimandare indietro il virus di autodistruzione del mio sistema è un esperto conoscitore degli uomini o un filantropo generoso o un rozzo zotico che per sbaglio una volta ha detto o fatto la cosa giusta; se un bambino con la sua tenerezza inconsapevole mi ha salvato dalla mia morbosa, tediosa assenza di vita o un adulto con la sua accoglienza veramente affettuosa e, in mancanza di meglio, anche con una convenevole faccia cordiale, con un diplomatico senso del tatto…
Ciò che conta è che con quella dose andrò avanti un altro po’: un giorno, forse due, forse anche un mese.
Le crisi di astinenza sono al di là di ogni sopportazione: mi si impasta la lingua e non riesco nemmeno a sbiascicare qualche parola, mi si incolla il pensiero e divento allergica ai sogni, ai sentimenti, ai valori. Ed è solo l’inizio: dopo poco divento restia alla gente e tutto mi puzza di sudore, di piscio, di frutta marcia. Non posso proprio, non ho resistenza e nemmeno istinto di sopravvivenza senza la mia dose, magari meritata, magari comprata, trovata per terra, persino rubata, dall’inafferrabile mercato internazionale della fiducia altrui.
Mi faccio d’amore o di qualche sua imitazione ogni giorno che il mondo mi schiaffa addosso e di quella sostanza allucinogena vivo.
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